«Qual è la
concezione che le altre religioni hanno dell’altro?»
Questa è la
domanda che fa da filo conduttore ai nostri incontri, secondo una prospettiva
particolare, dal momento che guardiamo le altre religioni come altre da noi per
chiederci come gli altri guardino l’altro. Non si tratta di un semplice gioco di
parole, ma della constatazione che, in una società multiculturale e
multireligiosa, il confronto con altre religioni è un dato di fatto ineludibile.
Qual è però
l’atteggiamento più corretto per conoscere l’altro? Sicuramente quello di
lasciar parlare gli altri. Abbiamo scelto, invece, di non far parlare un
buddista del buddismo, un induista delle religioni induiste, un musulmano
dell’islam, e via dicendo, perché ci interessa soprattutto essere noi ad
interrogare gli altri e chiederci in cosa la concezione che gli altri hanno
dell’altro può essere interessante per noi e cosa abbiamo da imparare da loro.
In altri termini: c’è qualcosa della loro concezione dell’altro che ci possa
interessare e che possa arricchire la nostra nozione di alterità? Da questo tipo
di domanda discendono due conseguenze: in primo luogo, non porci in un
atteggiamento di giudizio e valutare le altre esperienze religiose come buone o
meno buone, considerando la nostra posizione come un assoluto da cui giudicare
le posizioni altrui; in secondo luogo, evitare il rischio opposto, ossia un
atteggiamento di “mitizzazione”, che ci spinge ad assimilarci a tal punto da
adeguarci acriticamente ad altre esperienze religiose. Né giudizio, dunque, né
imitazione, ma, a partire dalla nostra identità occidentale, laica cristiana che
sia, essere disposti ad imparare qualcosa che gli altri ci possono insegnare.
Bisogna poi
considerare che cultura occidentale e cristianesimo non coincidono. Se infatti
ci si pone dal punto di vista della cultura occidentale, non si può che
ammetterne la relatività e quindi porla a confronto con altre culture; dal
riconoscimento del relativismo dei valori, deriva la necessità di un’etica della
convivenza e della multiculturalità. Se invece ci si colloca dal punto di vista
del cristianesimo, il discorso diventa più complesso, dal momento che il
cristianesimo non può essere considerato semplicemente una cultura, ma annuncio
a tutte le genti e quindi non pensato solo per la cultura occidentale (non si
può pensare il cristianesimo secondo riduttive categorie culturali occidentali);
se il cristianesimo è messaggio universale, allora dobbiamo pensare che il punto
di vista occidentale sul cristianesimo non sia assoluto, perché, se guardiamo al
cristianesimo dalla visuale di un buddista o di un induista, scopriamo qualcosa
del cristianesimo che era rimasto in ombra. Di conseguenza, interrogarsi su cosa
pensa il buddismo o l’induismo del cristianesimo, non significa soltanto vedere
se ci sono alcuni valori che si possano applicare alla nostra concezione
occidentale e al nostro modo di vivere il cristianesimo, ma significa
interrogarsi se esiste qualcosa del cristianesimo che non si era notato, che era
rimasto in ombra.
Parlare di
buddismo come religione è riduttivo, dal momento che il buddismo è anche una
filosofia; meglio sarebbe parlarne come di una soteriologia, cioè una via
di salvezza e di perfezione che conduce ad una consapevolezza maggiore o, al
limite, ad una consapevolezza assoluta. Nato in India e diffusosi poi in molti
stati asiatici, il buddismo è diventato una religione, popolare e anche di
stato. Non intendo però parlare del buddismo che si è realizzato nei paesi
asiatici, ma del buddismo occidentale, il quale è diverso rispetto al buddismo
orientale.
Il messaggio
centrale delle varie tradizioni buddiste si basa su tre principi: aniksha,
dukka, anakta, «impermanenza», «sofferenza», «insostanzialità».
L’esistenza è dolore perché gli esseri umani si attaccano alla vita
considerandola come qualcosa di esistente in eterno e dotata di una sostanza
propria, di una propria “cosalità”. Secondo il buddismo, invece, tutto passa,
tutto è impermanente, nessuna cosa dura se non un infinitesimo di secondo, senza
mantenere la propria sostanza, visto che le cose sono anakta, cioè prive
di sostanza propria, prive di sé. Ognuno ha la percezione della propria
identità: ci si sente diversi dagli altri perché si ha la sensazione
dell’irriducibilità del proprio sé come sostanza. Attaccandosi a questa
concezione del sé come dotato di sostanza propria, e quindi destinato a durare
in eterno, l’essere umano soffre per il fatto che il sé, essendo privo di
sostanza propria, è destinato a svanire. Bisogna dunque imparare a considerare
tutte le cose come impermanenti, visto che tutti gli esseri sono delle illusioni
destinate a svanire. Se s’impara questo, si impara anche a non attaccarsi più a
questa falsa concezione di se stessi, si impara il distacco, cioè la
consapevolezza dell’illusorietà della vita per raggiungere uno stadio di
consapevolezza superiore, nel quale ci si accorge che le differenze fra me
e l’altro sono illusorie, apparenti, destinate a venir meno.
Tutto ciò
illumina la concezione buddista dell’altro: l’altro, percepito, ad un primo
livello, come diverso, come oggetto di desiderio o di odio, è illusione, dal
momento che il tu e l’altro non sono persone, non hanno un sé
irriducibile, non sono per forza costretti a confrontarsi nel bene e nel male,
perché le loro differenze sono insuperabili; se si prende consapevolezza che le
differenze sono illusorie, si raggiunge uno stadio superiore di consapevolezza
nel quale ci si accorge che il tu e l’altro sono la stessa cosa, cioè un uno.
Si può cogliere in questa concezione la distanza rispetto al cristianesimo:
quando nell’evangelo si dice «ama il prossimo tuo come te stesso», cioè
impara a metterti dal punto di vista dell’altro fino a diventare come l’altro,
ciò non significa che il tu e l’altro siano la stessa cosa.
Analogo discorso
per quanto concerne il rapporto con Dio. Bisogna dire, anzitutto, che il
buddismo è sostanzialmente agnostico, nel senso che sospende il giudizio sulle
cosiddette questioni ultime, cioè se esiste o no un Dio o un’aldilà. Tuttavia,
sostiene che, se si trascendono tutte le differenze, è possibile raggiungere uno
stadio di autocoscienza assoluta, in cui non esiste più la consapevolezza di un
io che si autopercepisce, ma una consapevolezza impersonale che si illumina e
manifesta se stessa: si tratta, a seconda delle varie tradizioni, della «mente
di Buddha», della «buddità», del «non sé», del «vuoto», del «nulla». Il Buddha è
un personaggio storico (VI sec. a.C.) che ha avuto questa illuminazione, ha
capito che le differenze non esistono e che tutto coincide con tutto, ma è
anche, contemporaneamente, una potenzialità della nostra mente, nel senso che
tutti, a livello potenziale, siamo dei Buddha perché tutti in grado di
raggiungere la autocoscienza assoluta che trascende tutte le differenze. Essendo
potenzialmente dei Buddha, si supera non solo la differenza fra il sé e l’altro,
ma anche la differenza tra il sé e l’assoluto: ogni cosa è Buddha e la buddità
permea tutti gli esseri e tutte le cose. Per raggiungere questo stadio, bisogna
ricorrere alla meditazione, che significa sedersi, quietarsi, imparare a non
pensare e prendere consapevolezza del momento presente. Mentre la preghiera
cristiana è comunque un incontro e una relazione con Dio, il quale può essere
vicinissimo o dentro di noi, la meditazione buddista non è incontro e una
relazione con il Buddha, ma coincidenza con lui, il che significa anche superare
tutte le differenze teologiche, i dogmatismi, le varie teologie, tanto è vero
che il Buddismo arriva a dire: Uccidi il Buddha che c’è in te se lo percepisci
come dogma, come una verità teologica, perché il Buddha deve essere esperito al
di là di tutte le categorie concettuali.
Che il buddismo
consideri secondarie le differenze teologiche, lo si può verificare nel modo
stesso in cui si è diffuso (a partire dall’India, si è spostato verso sud, in
Sri Lanka, poi è risalto verso il Tibet, da cui si è spostato in Cina e in
Giappone): pur essendo entrato in contatto con altre civiltà, dotate di propri
valori e di proprie religioni, non c’è mai stata guerra di religione, bensì un
processo di assimilazione, per effetto del quale il buddismo si è come
sovrapposto e amalgamato con le varie religioni, lasciandosi a sua volta
compenetrare da esse. Se, per esempio, si entra in un tempio buddista in Sri
Lanka o in Birmania, si potrà vedere la statua di Buddha insieme a quella di
Visnu, mentre in Giappone il buddismo si è amalgamato con lo scintoismo, in Cina
con il taoismo (da qui nasce la corrente del buddismo zen). Questa capacità di
convivenza con altre religioni deriva dal fatto che esse possono costituire un
valido aiuto per il cammino di consapevolezza proposto dal buddismo. Anche in
occidente, infatti, il buddismo non si sta diffondendo in contrapposizione con
la cultura occidentale, ma assimila dei valori tipicamente occidentali, quali,
per esempio, la psicologia, l’impegno sociale, il dialogo interreligioso (in
particolare con il cattolicesimo: sempre più spesso si vedono sacerdoti
cattolici che meditano con monaci buddisti).
Ci sono due
aspetti che meritano di essere sottolineati. In primo luogo, se si superano
tutte le differenze, allora viene meno anche la differenza uomo-natura.
Il buddismo offre quindi la strada per giungere ad un rapporto con la natura di
estrema intensità, dal momento che non solo gli uomini, ma anche animali, piante
e pietre hanno l’essenza della buddità e procedono insieme all’uomo lungo il
cammino della consapevolezza.
Tale
consapevolezza -ed è il secondo aspetto- deve coincidere con la capacità di
percepire il momento presente al di là di categorie concettuali. Ne Il Buddha
vivente, il Cristo vivente del monaco zen di origine vietnamita Thich Nhat
Hanh si dice: «La consapevolezza è la sostanza di un Buddha. Quando, penetrati
intimamente in questo momento, cogliete la natura della realtà, questa
intuizione vi libera dalla sofferenza e dalla confusione. In certa misura, la
pace è già presente. La respirazione cosciente è la più importante pratica
buddista per attingere la pace. Vorrei proporvi questo breve esercizio:
inspirando, calmo il corpo; espirando, sorrido; dimorando nel momento presente,
so che questo è un momento meraviglioso. Inspirando, calmo il mio corpo:
è come bere un bicchiere di acqua fresca: sentite la frescura che vi pervade il
corpo. Quando inspiro e recito questo verso, faccio veramente esperienza del mio
respiro, che rasserena il mio corpo e la mia mente. Espirando, sorrido:
il sorriso può rilassare centinaia di muscoli facciali e rendervi padroni di voi
stessi. Quando osservate un’immagine del Buddha, lo vedete sempre sorridente;
quando sorridete con consapevolezza, vi rendete conto della meraviglia di un
sorriso. Dimorando nel momento presente: recitiamo questo verso quando
inspiriamo nuovamente e non pensiamo a nient’altro che non sia presente, perché
noi abbiamo il difetto di differire sempre la vita al futuro, così che ci può
capitare di non essere mai veramente vivi per tutta la vita. La tecnica, sempre
che di una tecnica si possa parlare, è quella di essere nel momento presente,
qui e ora, perché l’unico momento da vivere è il presente. Quando inspiriamo,
diciamo: so che questo è un momento meraviglioso; essere qui e ora e godere del
momento presente. Ecco il nostro compito più importante». Tale consapevolezza
presuppone il trascendimento del momento storico come illusorio: poiché ogni
cosa è impermanente, anche il trascorrere del tempo è illusorio, per cui
concentrarsi sul passato o puntare al futuro significa dimorare ancora
nell’illusione e incamminarsi lungo una strada di dolore. Bisogna invece
riuscire a concepire il presente come momento assoluto e perfetto, senza pensare
più ad altro se non a renderlo il più possibile perfetto, cioè riuscire a
concentrarsi sul momento presente fino ad un punto tale da concepire ogni
istante che si sta vivendo come istante eterno, assoluto, extra-storico.
Arrivati a questo stadio, anche la differenza tra vita e morte è illusoria. Il
cosiddetto nirvana, stato in cui si estinguono tutte le nostre
distinzioni tra vita-morte, essere-nulla, io-altro, uomo-natura, è una
condizione di non-vita e non-morte. Come si vede, si è lontani dalla concezione
ebraico-cristiana basata sulla fede in Dio che si è rivelato nella storia
(passato) e che ci chiama ad una redenzione che deve ancora avvenire
(escatologia): la dimensione della memoria e della speranza è inscindibile dalla
fede. Nel buddismo invece la speranza la si può ottenere subito, nell’istante
presente: se una persona è perfettamente consapevole dell’istante, può
raggiungere la buddità senza dover sperare in un futuro. Mentre la speranza
cristiana è viva perché si basa su incontro già avvenuto, per il buddismo
puntare sulla speranza sarebbe come puntare su un’illusione. Certo, è difficile
capire questa concezione se non si pratica la meditazione.
La concezione
buddista dell’alterità conduce dunque verso un’etica dell’alterità
basata sul superamento dell’alterità stessa, a partire comunque
dall’inevitabilità della com-passione, come percorso intrinseco alla
consapevolezza. Il buddismo è nato anzitutto come via di liberazione dalla
sofferenza. Si narra infatti che il Buddha si è posto il problema della
sofferenza nel momento in cui, uscito dal suo palazzo principesco, incontra nel
mondo la malattia, la povertà e la morte; a quel punto decide di lasciare tutte
le sue ricchezze e si dedica a trovare una via capace di liberare gli esseri
dalla sofferenza. Ne consegue che il buddismo non propone una via privata ed
individuale per la ricerca della perfezione: seguire l’illuminazione per se
stessi, senza dedicarsi ad illuminare gli altri, significherebbe coltivare il
proprio ego e quindi riproporre ancora la differenza, illusoria, fra se stessi e
gli altri. Il buddismo, al contrario, è pratica di com-passione: vede nell’altro
la sofferenza e cerca di aiutarlo a liberarsene.
L’etica buddista
dell’alterità prevede due passi. Il primo consiste nell’accettare l’altro così
com’è: se infatti le identità (etniche o religiose) sono illusorie, non bisogna
spingere l’altro a cambiare idea, ma accettarlo. Si tratta insomma di un
atteggiamento di benevolenza, di equanimità, di tolleranza. Soltanto ponendosi
di fronte all’altro senza combatterlo, ma lasciandolo essere nel suo essere,
indirettamente gli si fa capire che la sua identità non è un tesoro da difendere
a tutti i costi.
Il secondo passo
è percepire il dolore dell’altro, perché, se è vero che non ci sono differenze
fra sé e l’altro, è anche vero che la sofferenza dell’altro diventa la propria
sofferenza; si tratta di essere disponibili ad accogliere la sofferenza
dell’altro sino a farla evaporare. Il cammino della com-passione è ben
illustrato, nel buddismo Mahayana (India, 100-500 d.C.), dal
Bodishavta, un essere illuminato che, pur avendo raggiunto la possibilità di
estinguersi nella perfezione assoluta del nirvana, rinuncia a questa
possibilità per poter rimanere sulla terra ad aiutare gli altri a raggiungere
l’illuminazione. Se nel proprio cammino di meditazione si raggiungere un certo
livello di consapevolezza, lo si dovrà sempre restituire agli altri: si tratta
di un continuo cammino di redistribuzione di tutte le differenze, metterle in
circolo finché, una volta dissolte, formino un tutt’uno. Questa concezione viene
poi concretizzata nel sangha, la comunità monastica, nella quale i
singoli monaci non tengono nulla per sé, a parte una ciotola, una tonaca, un
reggitesta e poco altro. Nel sangha tutte le differenze tendono a
dissolversi e la compassione viene considerata come il precetto principale
dell’etica.
Si noti che,
mentre l’amore cristiano si basa sul riconoscimento della contraddizione e della
differenza per poi superarle attraverso il dono dell’amore, la compassione
buddista si basa sulla dissoluzione della contraddizione. Si potrebbe dire che
esistono strategie di riconciliazione diverse: la riconciliazione
cristiana è di tipo triadico, perché fra me e l’altro c’è l’Altro, cioè Dio che
mi fa dono della riconciliazione (si pensi all’episodio biblico della lotta fra
Giacobbe e l’angelo). La strategia buddista, invece, è di tipo diadico: si parte
da una condizione immediata di differenza fra me e l’altro, si impara a superare
il due doloroso e si arriva all’unità, in cui io e l’altro diventiamo una cosa
sola, cioè siamo entrambi dei Buddha, il quale non è “io” o “tu”, ma ogni cosa e
tutto. Pur diverse, queste strategie facilitano anche la possibilità di un
dialogo interreligioso.
Cosa possiamo
allora imparare dalla concezione buddista dell’alterità? Pur senza rinunciare
alla nostra identità di laici o di cristiani occidentali, mi sembra che ci siano
due nodi che affliggono la nostra cultura e sminuiscono il nostro modo di vivere
il cristianesimo e che invece potrebbero essere arricchiti dalla concezione
buddista.
Il primo è una
diversa concezione della natura: il buddismo ci insegna a non frapporre
barriere tra natura e cultura. Nel cammino buddista tutti gli «esseri visibili e
invisibili» sono chiamati all’illuminazione; la compassione a cui il buddismo
invita è diretta non solo agli esseri umani, ma anche a tutti gli esseri viventi
(si tenga presente che il buddismo nasce in India anche come critica alla
religione sacrificale dell’induismo vedico). Oggi tutto il mondo soffre perché
noi abbiamo posto la natura in uno stato di sofferenza (in termini cristiani:
non siamo stati capaci di salvaguardare il creato). Se ci poniamo dal punto di
vista buddista, potremmo imparare a rileggere meglio certi aspetti del testo
biblico che erano rimasti in ombra, soprattutto per quanto riguarda un diverso
rapporto con la natura che deriva dal coinvolgimento di tutto il creato
nell’opera di redenzione.
Il secondo punto
è l’invito ad essere più consapevoli del momento presente. Ritengo che
sia una pratica necessaria dal momento che noi, per formazione culturale,
tendiamo a leggere il presente attraverso un pensiero di tipo categoriale,
concettuale, sovrapponendo alle cose una rete di parole; così non riusciamo ad
avere consapevolezza di qualcosa come assoluto perché, prima della
consapevolezza, noi sovrapponiamo la parola, la quale sopprime la possibilità di
avere delle cose una percezione perfetta e assoluta delle cose. Il buddismo
invece ci insegna a metterci in rapporto con le cose senza l’esigenza di
definirle, senza pensare a nulla, finché noi e l’oggetto diventiamo una cosa
sola; in questo modo, si intensifica la nostra percezione dell’oggetto ad un
punto tale che l’oggetto diventa qualcosa di assoluto. Tale prospettiva chiama
nuovamente in causa il cristianesimo. La rivelazione cristiana è manifestazione
della Parola di Dio; tuttavia, poiché siamo abituati a ragionare sempre in
termini di parole o di reti di parole, tendiamo inevitabilmente a ridurre la
Parola di Dio a discorso di Dio, dimenticando che Parola di Dio non è
semplicemente una serie di categorie logico-discorsive, ma anche Silenzio di
Dio. Il buddismo afferma che, se si vuole veramente entrare in rapporto con una
qualcuno, bisogna anzitutto fare silenzio e mettersi in una dimensione di
ascolto assoluto per lasciare che l’altro si manifesti: nel silenzio assoluto
l’altro si manifesterà nella sua essenza.
Penso, in
conclusione, che potremmo fare nostri questi atteggiamenti, senza per questo
dover rinunciare a quella che, a mio parere, è la specificità tanto della
cultura occidentale quanto del cristianesimo, vale a dire l’irrinunciabilità
della dimensione personale. Si tratta di una specificità irrinunciabile perché,
dal punto di vista cristiano, nel momento in cui ci troviamo di fronte a un Dio
creatore, noi siamo creature, cioè dono di Dio che non può essere dissolto; di
conseguenza, non possiamo pensare che l’altro, in quanto diverso da noi, sia
qualcosa di illusorio, perché proprio nell’irriducibile differenza dell’altro ci
appare il volto di Dio. Dal punto di vista della cultura occidentale, poi, da
sempre si è ribadito l’irriducibilità della soggettività: l’essenza dell’uomo è
la sua soggettività; se nel buddismo l’idea di persona è secondaria, nella
cultura occidentale la persona occupa invece una posizione centrale. La
questione, quindi, non è chiedersi se ha ragione il buddismo o la cultura
occidentale; si può benissimo accettare che il buddismo abbia una concezione
“debole” di persona, riconoscendo però che da questa concezione debole noi
possiamo imparare qualcosa che ci può essere utile. E’ sul piano dell’ortoprassi,
non su quello dell’ortodossia, che buddismo e cristianesimo possono incontrarsi
in modo fecondo.
Testo ripreso dal registratore e non rivisto dall’Autore
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